Novena per la guarigione del Card. Gualtiero Bassetti e dei malati di COVID 19, e non solo, per intercessione del seminarista Giampiero Morettini

Ore 17,30 – Santo Rosario

ore 18,00 – Santa Messa

Chiesta San Pio – Castel del Piano

Padre infinitamente buono,

ti ringraziamo per la cura e la Misericordia che hai verso tutti i tuoi figli. 

Tu hai mandato nel mondo il tuo Figlio Gesù e nella potenza dello Spirito Santo Tu rovesci i potenti dai troni e innalzi gli umili, ricolmi di beni gli affamati e rimandi i ricchi a mani vuote; Tu disperdi i superbi e ti compiaci dei piccoli e regali ai poveri la gioia del tuo Regno.

Con la Beata Vergine Maria, associata al Tuo disegno di salvezza, una schiera innumerevole di uomini e di donne che hanno fatto pienamente la Tua Volontà cantano le Tue lodi in Cielo e in terra per noi sono di esempio e di aiuto.

Ti preghiamo affinché tra i santi che la Chiesa ha riconosciuto certi di venerazione, possiamo presto contemplare anche il seminarista Giampiero Morettini, che ha testimoniato la bellezza del dono di sé nel totale affidamento a Te.

Perché sia manifesta la sua santità semplice e concreta, ti chiediamo la Grazia……. Per intercessione di Giampiero.

A lode e gloria della Santissima Trinità, per il bene della Santa Madre Chiesa e la salvezza di tutti i tuoi figli.

Amen.

Pater, Ave, Gloria

Pensieri… anti virus

Cinque pani

e due pesci

Se hai preso gusto nell’iniziare la giornata con la Parola… continua e trova un tempo per condividerla con chi ha scoperto lo stesso tuo gusto, perché l’appetito vien mangiando.

Ma non siamo soli: ascolta l’omelia della domenica e del cammino del lunedì che tracciano il filo della settimana su cui tu incastonerai le pietre preziose della Parola di ogni giorno e così il tuo dialogo con il Signore avrà una guida.

Su questo poi ti confronterai con la tua guida spirituale.

In questa pagina ogni settimana potrai trovare i files audio dell’omelia e del cammino.

Omelia 01.11.20

Omelia 02.11.20

Ospitiamo in questa pagina riflessioni e commenti che ci possano aiutare in questo periodo difficile. Dallo sport alle problematiche sociali, sono ben accetti tutti i contributi purché in linea… con il titolo.

Stephen Curry 

Storie di grandi campioni. E di una generosità che spesso supera un rettangolo verde o il campo da gioco di una palestra. In tempi di Covid19, c’è stato chi ha messo da parte scarpette bullonate o canottiere, e ha messo in campo il proprio cuore. Come Stephen Curry, stella dei Golden State Warriors, campione di basket della NBA, specialista nel tiro dalla linea dei tre punti, per ben tre volte vincitore del campionato a stelle e strisce. Ma Stephen Curry è molto altro ancora. Titoli e premi a parte.

Il canestro più bello, il numero 30 di Golden State l’ha segnato un mese fa circa nel corso dell’emergenza causata dal Covid19. Non con un’azione spettacolare delle sue, non con un palleggio sotto le gambe, arresto e tiro dalla distanza a cinque secondi dalla sirena. Ma con una semplice telefonata, finita agli onori della cronaca. Una telefonata in videochiamata fatta a un’infermiera del reparto di terapia intensiva di un ospedale di Oakland, in California. Una telefonata per dire grazie, per incoraggiare chi stava, e sta combattendo contro l’epidemia. Una telefonata fatta dal proprio idolo sportivo, che ha elogiato l’altruismo e lo spirito di sacrificio di questa e di tanti altri operatori sanitari. Un gesto semplice, che non è passato però inosservato. 

Come gli aiuti offerti, assieme alla moglie Ayesha, ai più disagiati durante l’emergenza Covid e come le donazioni effettuate in favore di chi non ha potuto lavorare in questo periodo da tanti altri campioni della NBA: dalla stella Giannis Antetokounmpo all’astro nascente Zion Williamson.

Il gesto di Curry è stato quello di un campione mai fuori dalle righe. Perfettamente in linea con il sorriso con cui scende sempre in campo e con quel motto “I can do all things” (“Posso fare ogni cosa”) che porta tatuato al braccio e scritto sulle scarpe da gioco, assieme a quel “4:13”, che è il richiamo alla lettera di san Paolo ai Filippesi. Da lì, come ha avuto modo di spiegare più volte ai media, nasce la sua esultanza dopo ogni canestro, con le mani che indicano il cielo: per ricordare che il suo cuore è per Dio e per tenere sempre a mente per chi sta giocando. Sul parquet e fuori.

Nicola Mucci

Il grande Torino

Ricostruzione. Era l’Italia del dopoguerra, quella che usciva dalle bombe e dalla distruzione del secondo conflitto mondiale. Oltre settant’anni dopo, l’Italia prova a mettere la testa fuori, poco alla volta, da un’altra guerra, che si spera volga presto al termine: quella contro il virus del Covid19. I simboli di quel paese che si avviava verso la ricostruzione erano le fughe in bicicletta di Coppi e Bartali e le vittorie sui campi di calcio del Grande Torino. L’Italia di allora si aggrappò a quei simboli per ritrovare ottimismo e voglia di ripartire. Perché lo sport spesso (ma non sempre, purtroppo) riesce a tirare fuori il meglio dalle persone e da un popolo.

La leggenda del Grande Torino, di cui lo scorso 4 maggio si è celebrato l’anniversario della scomparsa, nasce tra le tribune del vecchio stadio Filadelfia. È lì che va in scena il celebre quarto d’ora granata, annunciato da tre squilli di tromba che partono direttamente dagli spalti. Il capitano, Valentino Mazzola, tira su le maniche della sua maglia granata e il Toro comincia a giocare sul serio. E a vincere. Una partita dopo l’altra. Alla Roma, nell’aprile del ’46, arriva a rifilare sette gol. Sotto di tre reti contro la Lazio, nel maggio del ’48, rimonta fino a vincere per 4-3. In otto anni, conquista cinque scudetti e una Coppa Italia. L’undici titolare di quella formidabile squadra diviene ben presto conosciuto da tutti e costituisce l’asse portante della Nazionale: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola e Ossola. Ma la sua storia ha un triste epilogo. 

È il 4 maggio 1949. Settantuno anni fa esatti. Il Torino sta rientrando da Lisbona, dove ha giocato una partita amichevole contro il grande Benfica. Il tempo sopra la città è pessimo. Piove come riesce a piovere solo quando sta per succedere qualcosa di brutto. La visibilità è scarsa. L’aereo, che trasporta dirigenti e giocatori, sbatte contro la collina di Superga, dove sorge la Basilica fatta costruire dal re Vittorio Amedeo II nel 1717 come ringraziamento alla Vergine Maria, dopo la vittoria sulle truppe francesi che assediavano Torino. L’impatto è tremendo. Nessuno dei passeggeri a bordo si salva. La tragedia commuove non solo l’Italia, ma il mondo intero. E quel pomeriggio, fra le lamiere accartocciate di un aereo distrutto, il Torino passa dalla storia alla leggenda. Per ispirare, ieri come oggi, la ricostruzione e la voglia di vivere di un paese intero. 

Nicola Mucci

Kareem Abdul Jabbar

Solidarietà. Una parola che abbiamo sentito e sentiamo pronunciare spesso, soprattutto ora che il virus del Covid19 ha messo a dura prova anche le finanze di molti e che ci si avvia, un passo alla volta, a uscire finalmente di casa dopo la lunga quarantena. Una parola all’insegna della quale ripartire per cogliere l’occasione di costruire una società più attenta alle esigenze del prossimo, che sa mettere nel giusto ordine le priorità della vita. Un po’ come ha fatto, qualche tempo fa, un grande campione dello sport, noto su tutti i parquet e i playground del mondo e non solo. Quel campione risponde al nome di Kareem Abdul Jabbar, l’inventore del “gancio cielo”, la stella dei Lakers del basket tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 del secolo scorso, il miglior realizzatore della NBA, il campionato professionistico americano. Il top del top, insomma. L’uomo che faceva rima con basket prima dell’avvento di Michael Jordan. Il numero 33 più celebre della storia. Chi non l’ha mai visto giocare, si regali qualche minuto di pura magia guardando i suoi video in rete.   

Oggi, Kareem Abdul Jabbar è un distinto signore di 72 anni, alto e magro allampanato, con un sorriso contagioso e una brillante carriera di scrittore già avviata (in Italia, sono stati pubblicati “Sulle spalle dei giganti” e “Coach Wooden and me”, Add editore). Ma è anche il promotore della sua fondazione, la Skyhook Foundation, che prende il nome proprio dal suo famoso tiro: il gancio cielo, appunto. Nato Ferdinand Lewis Alcindor Jr, newyorkese di 218 centimetri, ha segnato in carriera oltre 38mila punti. Sei volte campione NBA, altrettante miglior giocatore della regular season, due delle finali NBA, per quindici volte scelto nel miglior quintetto del campionato a stelle e strisce, introdotto nella Hall of Fame nel 1995. E potremmo continuare ancora. L’elenco degli allori è interminabile. Non basterebbe una stanza a contenere tutti i suoi trofei. Una stanza che lo stesso Kareem, qualche tempo fa, ha provveduto a svuotare. Per una buona, anzi ottima causa. E così, la maggior parte di quei trofei, dei suoi anelli da campione, sono finiti all’asta fruttando oltre tre milioni di dollari. Ma la decisione di vendere tutto non è stata dovuta a difficoltà finanziarie. Affatto. Il motivo è stato un altro. Il buon Kareem voleva solo aiutare i bambini della sua fondazione. Nient’altro. Quei trofei frutto di tanto sudore, di ore e ore di allenamenti, di fatica consumata sui parquet d’America non valevano quanto il sorriso di un bambino. È stato quello che ha dichiarato sul perché della sua scelta: preferiva guardare la faccia soddisfatta di un bambino alle prese con la sua prima gru giocattolo, piuttosto che crogiolarsi tra i suoi cimeli di campione. Eccolo lì, allora, il miglior gancio cielo della sua carriera. Tirato come ai bei tempi dei Milwaukee Bucks e dei Los Angeles Lakers. Ma molto più bello. E, soprattutto, molto più importante. Per i suoi bambini e non solo. 

Nicola Mucci

Ho trovato un colpevole

Tra gli innumerevoli messaggi di speranza del Cristianesimo, oggi ne ho uno in particolare nel cuore. La capacità di Dio di trasformare ogni fine in un nuovo inizio. Il vedere la spiga là dove io vedo soltanto il seme che muore. Se non provassi ad aggrapparmi con tutte le mie forze a questo, oggi, aprendo gli occhi, vedrei soltanto le porte chiuse della mia chiesa di Castel del Piano. Ed è per questo che oggi, più che mai, offro il mio dolore, le mie preghiere e la mia speranza. Non cerco nemici, non mi interessano i loro nomi, ma voglio combattere la mia battaglia. Perché non certamente l’unico, ma un colpevole l’ho trovato. Sono io. Sono io che devo essermi distratto mentre la società nella quale vivo ha trovato il modo di tutelare il diritto al fumo e non quello a morire cristianamente. Sono io che devo essermi appisolato, mentre ci sono stati giorni in cui la società nella quale vivo, ma che faccio fatica a sentire mia, mi suggeriva che si poteva andare in chiesa a condizione che fosse lungo la strada per fare la spesa. Sono io che devo essermi proprio addormentato, mentre centimetro dopo centimetro mi sfilavano da sotto gli occhi un diritto, quello della libertà di culto, che pensavo fosse inattaccabile grazie al sacrificio di altri. Non mi interessano i nomi dei miei nemici, ma sento il dovere di testimoniare l’assoluto disaccordo della mia coscienza cristiana. Sono io che evidentemente stavo facendo altro, mentre la società nella quale vivo ha riaperto le libreria per “nutrire la mia anima”. E sono sempre io che, anche se insieme ad altri, devo essere stato davvero debole e codardo se di fronte al Dio che ha scelto di diventare uomo e farsi trafiggere la mani dai chiodi per amore verso di noi, e quindi anche anche verso di me, io non ho avuto abbastanza forza nemmeno per tenere aperte le porte della mia chiesa. Non mi interessa se è per scarsa considerazione o, al contrario, per estrema paura dell’Eucaristia che non si è trovato il “protocollo”. Non voglio piangere al canto del gallo e non voglio i trenta denari che questa società mi sta offrendo. Voglio semplicemente non addormentarmi di nuovo, per non correre il rischio, riaprendo gli occhi, di non vedere le porte chiuse della mia chiesa perché mi hanno portato via anche la Chiesa.

Massimiliano Macchia

Il bene che non ti aspetti

Leggendo Avvenire, mi imbatto in una notizia, una storia che mi ha toccato il cuore. Chaachoui, è un clochard di 71 anni, di origine tunisina, è morto in ospedale a Brescia a causa del Covid-19, dopo aver lottato in terapia intensiva per oltre due settimane, come molti altri purtroppo in questi giorni. Nelle rigide notti invernali frequentava un dormitorio della città, ma durante l’emergenza Coronavirus ne era divenuto ospite fisso.

Gli operatori lo ricordano come un uomo dall’animo buono e gentile, dal sorriso dolce e il carattere umile e pacato. Ma in particolare di lui ricordano la sera in cui li ha commossi tutti, cedendo il proprio posto a un altro immigrato. In una serata di pioggia e vento, infatti, Chaachoui giunge al dormitorio senza il necessario biglietto per la rotazione, gli viene assegnata l’ultima brandina disponibile.  Poco dopo arriva un giovane di circa trent’anni, appena dimesso dal Pronto Soccorso a causa di una ferita al piede. Non essendoci più posto gli operatori invitano gli ospiti a dare priorità al ragazzo, data la sua situazione. Chaachoui subito prende le sue cose, lascia il posto al giovane e in silenzio si allontana sotto l’acqua scrosciante. 

La sua storia ha commosso anche me. Quell’uomo, nonostante la sua vita randagia, vissuta all’ombra dell’indifferenza altrui, non si era perso, era rimasto un Uomo, sapeva ancora vedere l’altro. Aveva ancora il suo animo buono e gentile e il suo sorriso dolce. E noi, dentro le nostre belle case, nei porti sicuri dei nostri affetti, del nostro lavoro e di tutto ciò che abbiamo e spesso diamo per scontato, sappiamo ancora vedere l’altro? Sappiamo ancora incontrare l’Uomo?

Grazie, Chaachoui, per la lezione che ci hai impartito.

Il bene stavolta ha fatto notizia e questo oggi lo dobbiamo a te.

Francesca Fantozzi

Francesco Totti

Paura. Siamo abituati a credere che si tratti di uno stato d’animo da evitare. Che non bisogna avere paura. Che è sbagliato e, anzi, che forse è meglio non farlo sapere in giro. Chissà cosa ne penserebbero gli altri. Ma chi è che da piccolo non ha avuto paura del buio? Avere paura infatti, soprattutto di ciò che non si conosce, è normale. Quando calava la notte, gli uomini primitivi, i nostri antichi progenitori, quelli che abbiamo studiato a scuola e che portavano quegli strani nomi che facevano rima con Cro Magnon o Neanderthal, avevano paura. Avevano paura delle belve feroci che, approfittando dell’oscurità, andavano a caccia e potevano facilmente farne delle prede. Ma quella paura spesso gli salvava la vita perché gli faceva trovare un riparo sicuro sugli alberi o nelle caverne e, comunque, li costringeva a tenere alta la guardia. La paura è un sentimento che anche noi, ultimamente, abbiamo imparato a conoscere. La paura di essere contagiati dal virus Covid19, ma anche la paura del futuro. Per il lavoro, per l’economia, per come sarà quando, poco alla volta, usciremo di casa e ci rimetteremo in moto. La paura di incontrare finalmente l’altro, seppure a distanza. La paura di riprendere quella vita che, in un certo senso, abbiamo messo in pausa un paio di mesi fa. Ma tutti hanno paura. I bambini come i grandi, le persone comuni come i grandi sportivi.

È la fine di maggio del 2017. C’è uno stadio pieno zeppo per salutare uno dei più grandi campioni della storia del calcio. Quel fuoriclasse porta sulle spalle il numero dieci, quello dei campioni appunto. Si è appena conclusa la partita tra Roma e Genoa, e Francesco Totti, il capitano e la bandiera della squadra giallorossa, ripercorre la sua carriera in una lettera che legge a tutto lo stadio. A tutti quei tifosi che ascoltano in silenzio. Ma in quelle righe non racconta tanto le sue vittorie e i suoi gol, quanto i suoi sentimenti. E confida ai suoi sostenitori, a tutta quella gente che l’ha idolatrato fino a farne quasi un re come quelli dell’antichità, di avere paura. Del futuro e di ciò che lo attende. Lui così sicuro in campo, così vincente, ha paura di ciò che lo aspetta lontano dal rettangolo verde, una volta che si sarà tolto la maglia numero dieci per l’ultima volta e avrà appeso le scarpette bullonate al classico chiodo. Anche un grande fuoriclasse come lui, a cui non sembra mancare nulla, ha paura. Nonostante i gol (quasi 300), gli scudetti, il mondiale vinto nel 2006 in Germania con l’Italia, i trionfi e gli onori con la maglia della Roma che indossa da quando era solo un bambino. Fuori da quello stadio, però, è un uomo con le sue paure, le sue insicurezze, i suoi dubbi. Come tutti noi. E per vincerle chiede l’affetto dei suoi tifosi. Di non farlo sentire solo. In poche parole, ha bisogno dell’amore degli altri. Perché è l’amore, in fondo, l’unico antidoto alla paura. L’amore che non conosce ostacoli, barriere, distanze. L’amore che tutto vince, come diceva, secoli e secoli fa, un altro romano proprio come Totti. Quel Virgilio che compose l’Eneide in onore dell’imperatore Augusto e che, poi, ritroviamo nella Divina Commedia di Dante: omnia vincit amor.

Nicola Mucci

Matthias Sindelar

Speranza. Secondo la mitologia greca, si trovava nascosta in fondo al vaso di Pandora e fu l’ultima cosa che ne fuoriuscì, dopo che la stessa Pandora, disobbedendo a Zeus, scoperchiò la giara e liberò tutti i mali che sono presenti nel mondo. Miti a parte, la speranza è una delle tre virtù teologali, quella che risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha messo nel cuore di ogni uomo. E mai, come in questo tempo, si sente il bisogno di sperare. Sperare di sconfiggere presto (e definitivamente) il virus del Covid19, sperare di tornare alla normalità, sperare di riabbracciarsi quanto prima annullando ogni distanza. Insomma, quando l’uomo viene messo a dura prova dagli eventi della vita, la speranza è quella virtù che torna a riaffacciarsi nel cuore di ognuno, ricordandoci che siamo fatti per la gioia. 

Riavvolgendo il nastro della storia, tra le pagine in bianco e nero degli anni bui della Seconda Guerra Mondiale, emerge la figura di un fuoriclasse del pallone, una sorta di Messi ante litteram, che risponde al nome di Matthias Sindelar, detto “Cartavelina”. Già, proprio così, per via di un fisico slanciato ma molto magro, con doti da artista che gli valsero il soprannome di “Mozart del calcio”. Sindelar non è solo un talento, ma anche un simbolo. Della Nazionale austriaca e dell’Austria Vienna. Rappresenta il top del calcio danubiano: ha un ottimo dribbling, una grande visione di gioco, una tecnica sopraffina. Può giocare da centravanti, ma anche da rifinitore e ha il gol facile: 155 con la maglia dell’Austria Vienna, una trentina con quella della nazionale.

Quando i tedeschi annettono l’Austria al Terzo Reich, nel 1938, vogliono che Matthias, già una leggenda, indossi la maglia della nuova Germania. Ne hanno bisogno. Dal momento che la Nazionale austriaca viene sciolta, perché non giocare per quella di Hitler? Il fuoriclasse riceve pressioni e inviti, più o meno espliciti, per saltare il fosso ed entrare a far parte della squadra tedesca. Ma Sindelar è un fuoriclasse non solo sul campo. Anche fuori. Al termine della sua ultima partita con l’Austria, in un match organizzato apposta contro la Germania, si rifiuta di salutare la folla con il braccio teso. Lui è uno che non si piega, che non vuole cedere alla paura e alla dittatura. Quando tutti i dipendenti ebrei dell’Austria Vienna vengono licenziati, lui continua a salutare il suo presidente, anch’egli di origine ebraica. Per di più, è fidanzato con una ragazza ebrea italiana, Camilla Castagnola, che fa l’insegnante. Ma spirano venti di guerra in Europa ed è ormai chiaro che gli ebrei, o chi si accompagna con loro, non sono ben visti. Molti dei suoi compagni di squadra, decidono di lasciare l’Austria e volare in Inghilterra. Non Matthias, però. Lui decide di restare al suo posto. Di resistere. Non abbandonerà Vienna e non indosserà la maglia della Nazionale tedesca. Vuole continuare a giocare a casa sua per dare una speranza alla sua gente. Perché sa di essere un simbolo. E i simboli non scappano, ma restano accanto a chi soffre e ha paura per infondere fiducia. Diventa proprietario di un bar e continua a calciare meravigliosamente quel pallone per la sua Austria Vienna. Fino all’ultima partita contro l’Hertha Berlino, a cui segna anche un gol.

Camilla e Matthias vengono ritrovati morti il 23 gennaio 1939 nell’appartamento del campione, in circostanze misteriose. Ufficialmente avvelenati dal monossido di carbonio, fuoriuscito da una stufa difettosa. La sua storia, anche se un po’ romanzata, è racchiusa nel bel libro di Nello Governato, “La partita dell’addio” (Mondadori), uscito qualche anno fa. La storia di un uomo prima che di un campione. La storia di chi seppe trasmettere speranza anche in uno dei momenti più bui della storia. Con un dribbling, un pallonetto e un colpo di testa. E con tanto altro.

Nicola Mucci

Una piccola riflessione

su una piccola cosa

Quella che voglio proporvi è una piccola provocazione su una cosa di per sé piccola.
Credo che anche le piccole cose meritino la nostra attenzione e in questi giorni, per molti di noi vuoti, lenti e domestici, potrebbe essere più facile osservarle con uno sguardo diverso, inedito.
Con piccole intendo tutte quelle cose che riteniamo superflue, che ci sembra che siano accessorie. Che, con un’immagine, sembrerebbero solo dei satelliti che ruotano intorno alla nostra vita. Cose, ci sembra, che se non ci fossero o se fossero diverse da come sono non cambierebbe la sostanza. Ma è davvero così? Se ci pensiamo un attimo, azioni comuni, abitudini, oggetti banali, hanno un posto centrale nel nostro quotidiano. Presi di per sé ci sembrano insignificanti oggetti di contorno, ma intessuti insieme occupano una buona parte del nostro tempo, della nostra attenzione e delle nostre energie. E soprattuto contribuiscono a mediare, determinare, le cose importanti, quegli aspetti della nostra vita che invece diremmo essenziali, a cui più teniamo.
E allora potremmo scoprire il senso di orientare le piccole cose nella stessa direzione di quelle importanti. Per provare a essere meno divisi tra tempo libero (da dedicare alle cose importanti) e quotidianità e vivere una quotidianità liberata, perché illuminata anche nelle più piccole cose da ciò che conta.

Una riflessione sull’importanza delle piccole cose potrebbe diventare astratta e finire per portarci lontano, non essere più così piccola come promettevo; perciò vi propongo di riflettere intorno a un oggetto in particolare: il nostro smartphone (c’è ancora qualcuno che non ne ha uno personale?). Un oggetto di per sé piccolo a cui sono legate azioni singolarmente piccole, ma a cui abbiamo affidato un ruolo centrale – quindi “grande” – nelle nostre giornate. Sia in termini di tempo – pensate a quanto tempo lo utilizziamo – sia in termini di spazio e di vicinanza – è sempre attaccato a noi – sia in termini di importanza – ha a che fare con le nostre relazioni (a tutti i livelli). Per tanti motivi questi strumenti, nati relativamente da poco (anni ’70 il primo cellulare, a cavallo del nuovo millennio i primi smartphone) hanno assunto una posizione di assoluto rilievo nelle nostre vite.
Alcuni studiosi del digitale ritengono non sia più corretto parlare di “strumento” in riferimento allo smartphone, quanto piuttosto di “ambiente digitale” (o anche “mondo”, “realtà”). 
Il motivo s’intuisce facilmente. Uno strumento può essere un martello, una penna. Col martello fisso un chiodo, con la penna scrivo su un foglio. Questi oggetti sono contraddistinti dalla loro funzione strumentale. Ma se questo poteva valere con il cellulare, che serviva semplicemente per telefonare, per mandare messaggi, per leggere l’ora, tenere i numeri di telefono, ecc., per lo smartphone non è più adatto. Possiamo anche provare a formulare la frase “lo smartphone serve a…” e partirebbe un elenco lunghissimo di cose per cui lo smartphone è uno strumento. E certamente lo è, ma non è soltanto uno strumento. Prima di tutto è un ambiente, è una parte della realtà. Non lo prendiamo in mano solo per farci qualcosa, come facciamo per la forchetta. E la gran parte di noi non sa neanche come funziona, cioè non sappiamo come sia possibile che faccia quello che fa. Siamo per lo più degli utenti, pochi di noi sanno programmare o metterci le mani. Se possiamo capire più o meno facilmente il resto dei nostri strumenti, dal frullatore, al trapano, alla macchina, ciò che concerne il mondo digitale ci sembra che funzioni e basta, che sia come “automagico”. 
Non semplicemente uno strumento che usiamo, ma un ambiente dunque, al quale partecipiamo. E se infatti pensiamo ad esempio ai social (whatsapp, facebook, instagram, ecc) intuitivamente non li diremmo semplici strumenti. Sono come luoghi in cui succede qualcosa, in cui ci sono scambi che prescindono da me e dal mio utilizzo, ma che in qualche modo influenzano e condizionano la mia vita. Ed ecco un altra cosa che possiamo dire: quello digitale è un ambiente che è parte della realtà, non è fuori di essa, non è una realtà a parte, ma è uno strato, un livello della stessa realtà che viviamo.

Riguardo il mondo digitale si potrebbero aprire numerosi discorsi, interessanti e che scopriremmo riguardarci da vicino (uno ad esempio è quello sulla gestione che viene fatta dei nostri dati personali che forniamo quando navighiamo in rete). Ma prima di tutto ciò credo che da questi giorni potremmo ricevere una provocazione – a mio avviso importante – rispetto al nostro rapporto con questo piccolo oggetto.
Questo tempo può rendere chiare sicuramente due cose.
La prima, abbastanza immediata, è che il progresso tecnico-scientifico se a servizio del bene comune può fare la differenza. Pensiamo a quanto questi mezzi di comunicazione e l’ambiente digitale siano determinanti in questi giorni: per la gestione decisionale e operativa dell’emergenza da parte di chi è se ne sta occupando in prima persona; per la comunicazione tra chi è in isolamento a casa. Senza di essi, gestire l’emergenza sarebbe stato molto più difficile (e i danni ancora più pesanti) e vivere l’isolamento molto più faticoso.
La seconda cosa, che in questi giorni ci può apparire chiara, è che se il mondo digitale è per noi di grande utilità, per quanto riguarda le relazioni non riesce a sostituire la presenza degli altri. Anche questo oggi ci sembra ovvio, lampante. Per quanto possiamo scriverci, chiamarci, videochiamarci, mandarci foto e video, tutti sentiamo che non è la stessa cosa, che la presenza personale è insostituibile. Oggi è chiaro e magari a parole anche prima dell’epidemia poteva essere chiaro a tutti. Eppure quanto delle nostre relazioni avevamo affidato al mondo digitale? Ognuno può pensare al proprio particolare utilizzo. Mi riferisco ad esempio a questioni quali appiattire l’identità di una persona, magari anche la nostra, al suo profilo social; sostituire al dialogo e allo scambio faticoso se fatto di persona, quello più facile dei commenti a un post (che possiamo chiederci fino a che punto restino dialogo e non divengano l’alternarsi di monologhi); scambiare la presenza, la relazione, con il semplice “contatto”; fuggire dalla pesantezza di trovarsi da soli a fare i conti con la propria coscienza e con la propria inquietudine, rifugiandosi in un alienazione facile e sempre a portata di mano (tramite un videogioco o nello “scrollare” la home di un social); e si potrebbe andare avanti. 
La realtà digitale può essere a servizio delle nostre relazioni, ma queste non possono esaurirsi in essa. In questi giorni allora possiamo abituarci definitivamente a questa delega, che rischia di emendarci dalle nostre relazioni, oppure possiamo toccare con mano come a questi strumenti, utili e importanti, non possiamo delegare tutto; essi non sostituiscono la parte essenziale delle relazioni che è affidata direttamente a noi. Le relazioni sono un dono che sicuramente ci chiede una fatica e una complessità maggiore, ma come infinitamente maggiore è la bellezza che da esso può fiorire.

Francesco Di Filippo

Assistere i nostri anziani o

farli morire brutalmente?

La Pandemia che da gennaio imperversa nel nostro paese ha fatto riaffiorare, dopo svariati anni, tantissimi sentimenti sopiti dalla frenetica vita a cui eravamo abituati. Oltre naturalmente a far riscoprire una certa paura della morte e dell’ignoto, ci ha anche permesso di rivalutare elementi di una quotidianità ormai perduta come consumare i pasti in famiglia o cucinare un dolce seguendo la “ricetta della nonna”. Oltre a questi comportamenti “pratici” è però riaffiorata alla luce una concezione dell’uomo tipicamente anglosassone: l’efficientismo. A dire il vero questa corrente filosofica non se ne è mai andata anzi, è proprio sulla sua scia che sono state approvate leggi come l’aborto, l’eutanasia e il suicidio assistito. Il suo nucleo essenziale consiste nel considerare l’uomo persona solo quando è in grado di produrre, ovvero di essere efficiente per la società (cosa debba produrre dipende dalla corrente, in generale la persona ha come obiettivo il raggiungimento di una determinata qualità di vita e il conseguimento del benessere collettivo). Un embrione quindi secondo questa logica ferrea non è persona, poiché non comporta alcun beneficio alla collettività all’atto pratico e la sua qualità di vita (relazioni, salute, ecc…) è pressoché irrisoria. Questo ragionamento poi esteso arriva sino alla considerazione dei down, degli stati vegetativi, degli squilibrati mentali e di innumerevoli altri malati non solo come “non persone” o persone “di livello inferiore”, ma addirittura come pesi sociali possibilmente da eliminare fisicamente. Tra i vari paesi a sostenere questa corrente il primato spetta sicuramente all’Inghilterra dove già Locke e Hume, celeberrimi filosofi della sensibilità, avevano posto l’efficienza e il progresso come i veri paradigmi da perseguire sconfessando secoli di filosofia teoretica cattolica.
Tornando ai nostri giorni quindi non fa così scalpore ciò che il primo ministro inglese Boris Johnson ha detto qualche settimana fa. Lo statista britannico aveva palesato, anche abbastanza freddamente, che pur di mantenere solida l’economia britannica non avrebbe effettuato alcun tipo di “lockdown”, sostenendo che i morti causati dal coronavirus sarebbero stati un sacrificio necessario per il bene del paese. Naturalmente i decessi sarebbero stati maggiormente tra gli anziani, ovvero quella fascia di popolazione poco produttiva e sicuramente pesante agli occhi della previdenza sociale. Questo ragionamento, tipicamente efficientista, ha però dovuto fortunatamente scontrarsi contro una decisa reazione della popolazione inglese, che alla fine ha fatto arretrare il governo. Infatti ancora prima che condannare l’efficientismo come dottrina, si potrebbe demolire il discorso di Johnson semplicemente facendo notare come il benessere è un concetto labile poiché ciò che è il bene di uno potrebbe essere il male di un altro. Un bravo statista non può e non deve considerare come benessere solo ciò che garantisce una migliore condizione economica allo stato, ma ha l’obbligo di ricordarsi che egli è un rappresentante del popolo e non un suo aguzzino. Ad esempio, non si può considerare fonte di benessere una guerra, poiché anche se la sua vittoria garantisse un incremento della ricchezza pro capite, la certezza di perdere migliaia di uomini e donne non può accecare lo statista nella scelta.
In conclusione quindi l’Inghilterra, anche se ancora purtroppo parzialmente, ha fatto molto bene a scegliere la pista già battuta dall’Italia, dove anche solo una vita salvata vale la sofferenza di una popolazione in quarantena, poiché dietro ad ogni vita umana c’è una persona (come ci ha insegnato Mons. Elio Sgreccia) e non un automa votato al progresso per il raggiungimento di una migliore, ipotetica, qualità di vita. A queste affermazioni forse sarà arrivato anche Boris Jhonson, che proprio in questi giorni è stato ricoverato in terapia intensiva. Naturalmente di fronte alla sua malattia non dobbiamo e non possiamo essere contenti, come se fosse una prova divina della nostra “ragione”, altrimenti saremmo efficientisti e materialisti quanto lui. Sarà invece compito del cristiano pregare per lui, per la sua salvezza terrena e ultraterrena, poiché ogni umano è persona e ogni persona è chiamata, in virtù della creazione ad immagine e somiglianza di Dio, a vivere la “sequela christi”.

Lorenzo Arcese

Johan Cruijff

Particolari.

Quando si è costretti a passare tanti giorni chiusi in casa, all’insegna dell’hastag “#iorestoacasa”, s’impara a soffermarsi sui particolari. Sulle piccole cose. Quelle che fanno rima con una quotidianità a cui di solito dedichiamo poco tempo, schiacciati dagli innumerevoli impegni della nostra agenda. Ma poi arriva un maledetto virus e tutto si blocca. Anche le nostre vite frenetiche.

E così, nel corso delle ventiquattr’ore della giornata, si fanno largo le piccole cose: la tavola da apparecchiare, i panni da stendere, la lavastoviglie da disfare, la lezione di storia da risentire ai figli, la lampadina del bagno da cambiare. Particolari della vita di ogni giorno che, apparentemente trascurabili, hanno invece il potere di cambiare l’umore delle nostre giornate e anche la capacità, in alcuni casi, di mandare all’aria precari equilibri familiari.

Beh, c’era un grande campione del passato che aveva capito che erano proprio questi insignificanti particolari a fare la differenza nella vita di un uomo. E di un calciatore. E a trasformarlo in un fuoriclasse.

Quel grande campione porta il nome di Johan Cruijff.

Metà degli anni ’60. Un giovanissimo Johan firma il suo primo contratto da professionista con la maglia dell’Ajax. Il calcio sta cambiando e di questo cambiamento il più famoso numero 14 della storia del pallone sarà un simbolo. Assieme alla sua Olanda. Ma sta cambiando anche il resto della vita, fuori dal rettangolo verde. Sono gli anni dei Beatles, dei capelli lunghi, delle prime ragazze in minigonna e del boom economico.

E di questa epoca Cruijff diventa ben presto uno dei protagonisti. Così come il suo calcio totale, a cui molti, in varie parti d’Europa (compreso il Perugia di Castagner), iniziano a ispirarsi. È lui, infatti, a trascinare l’Ajax sul tetto d’Europa per tre anni di fila, a vincere altrettante volte il Pallone d’Oro e a portare l’Olanda fino alla finale di Coppa del Mondo, contro la Germania Ovest, nel mondiale del 1974. Insomma, Cruijff è un vero fuoriclasse. Ma qual era il suo segreto?

Sarebbe facile pensare che fosse la sua velocità. Oppure il senso del gol. O ancora i suoi dribbling e la sua intelligenza sportiva. Niente del genere. Siamo fuori pista. Ben presto, infatti, il giovane Cruijff impara – come riportato nella sua autobiografia (“Johan Cruyff – La mia rivoluzione”, Bompiani Overlook, 2016) – che il segreto per diventare un grande professionista è nascosto nelle piccole cose. In quei particolari apparentemente insignificanti. Ma solo in apparenza, appunto.

Capisce che pulirsi le scarpe, lavarsi la divisa da gioco, tenere in ordine lo spogliatoio, tagliare l’erba del campo vengono prima di tutto. Prima dei gol, della forza fisica, della velocità e della tecnica. Forse, sarà stato anche per via del fatto che aveva visto sua madre occuparsi della pulizia degli spogliatoi del grande Ajax. Chissà. Ma sarà proprio questa attenzione alle piccole cose che cercherà di trasmettere anche ai suoi calciatori, una volta diventato allenatore. Un’attenzione che ne ha fatto, prima di un fuoriclasse inimitabile, un grande uomo, tanto attento agli altri da diventare l’ideatore dell’omonima fondazione benefica e ambasciatore per Special Olympics.

Cruijff ci ha lasciati nel 2016. Ma non il suo stile inimitabile a cui, in queste lunghe giornate casalinghe, possiamo ispirarci. Almeno, un po’. Magari, non per diventare dei fuoriclasse del pallone, ma della vita. Anche con l’aspirapolvere in mano. Perché in fondo sono proprio le piccole cose a fare la differenza. Per un grande campione e per noi.

Nicola Mucci

Gino Bartali

Ispirazione. Di cosa si tratta, esattamente?

Secondo il dizionario della lingua italiana ha a che fare con un intervento divino che determina la volontà dell’uomo ad agire o a pensare in un modo piuttosto che in un altro. 

Quando era piccolo, mio figlio aveva paura di andare a letto da solo. Aveva paura del buio. Così una volta, per aiutarlo, gli ho raccontato una storia. Quella di William Wallace, il Braveheart di Mel Gibson per intenderci, che abbiamo conosciuto al cinema anni fa. E di come avesse lottato per la libertà della Scozia dal dominio inglese, combattendo contro la paura di morire dei suoi connazionali costretti ad affrontare un nemico potente come l’esercito di Edoardo I Plantageneto, più forte e più numeroso. Volevo che mio figlio avesse qualcuno a cui ispirarsi, proprio come quegli scozzesi che non erano indietreggiati di fronte alla paura. Dargli un esempio che potesse spronarlo ad affrontare la sua paura del buio (che, poi, chi è che non ce l’ha?).

Ma perché vi racconto questa storia di vita familiare?

Perché in questi giorni difficili a causa dell’epidemia da coronavirus, credo che anche noi abbiamo bisogno d’ispirarci. A chi ce l’ha fatta prima di noi, a chi, come noi, ha dovuto affrontare difficoltà nella vita. E non si è arreso. E l’ispirazione può arrivare anche dagli osannati campioni dello sport che, lontano dalle luci dei riflettori, hanno affrontato paure, angosce, limiti. Proprio mentre gli stadi sono vuoti, le palestre chiuse, le piste di atletica deserte.

Così, pensando a tutti coloro che, in questi giorni, si prodigano per salvare la vita di tante persone anche a rischio della propria, mi è tornato in mente Gino Bartali. Molti lo conoscono, qualcuno l’avrà sentito nominare dai nonni, appassionati di ciclismo.

Bartali era uno che andava in bicicletta e ci andava pure forte tanto da essere il rivale numero uno di Fausto Coppi (altro campionissimo) e da vincere, nella sua carriera, praticamente tutto, compresi Giro d’Italia e Tour de France. Su salite che ti spezzavano le gambe, su strade polverose che se bucavi una gomma era un dramma. Ma Gino Bartali è soprattutto uno che la sua vita l’ha spesa per aiutare gli altri. L’ha fatto in silenzio, quasi di nascosto. Rischiando in prima persona. Siamo durante la Seconda guerra mondiale. Tra il 1943 e il 1944, per la precisione. Con la guerra, il ciclismo e lo sport hanno subito un brusco stop. Niente partite e niente gare. Ma Bartali continua a pedalare. Lui si allena per farsi trovare pronto quando la guerra sarà finalmente conclusa.

Lui ha il cuore dei campioni prima delle gambe. L’Italia è territorio occupato dai tedeschi. Siamo negli anni della persecuzione ebraica. Chi può cerca di fuggire, ma non è facile. Ci vogliono documenti falsi per ingannare i nazisti. I campi di deportazione sono lo spettro che aleggia su questa pagina drammatica della storia. Ed ecco che, tra gli altri, scende in pista proprio Bartali, arruolato in un’organizzazione che si preoccupa di salvare vite umane dalla follia delle persecuzioni. Una pedalata dopo l’altra, il grande campione macina sotto le ruote della sua bicicletta i chilometri che lo separano da Terontola fino ad Assisi per consegnare, nascosti nel telaio della bici, i documenti e le foto tessere che serviranno proprio per mettere in salvo la vita di circa 800 cittadini ebrei.

Un gesto apparentemente semplice, ma in realtà eroico, compiuto a rischio della propria vita (fu ricercato dalla polizia e costretto perfino a nascondersi), facendo quello che il grande Gino faceva da quando era nato e che sapeva fare meglio degli altri: correre in bicicletta. Un’impresa che, sicuramente più rischiosa di quella di vincere il Giro o il Tour, gli valse la medaglia d’oro al merito civile, oltre ad altri riconoscimenti. Una storia diventata di dominio pubblico solo anni più tardi che sottolinea ancora di più l’eroismo semplice di tante persone anche dei giorni nostri. Eroi che, come il grande Bartali, ogni giorno saltano sulle loro bici e non smettono di correre. 

Nicola Mucci


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